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Acta Francisci Pp. 471
averli sia il denaro. Cari fratelli e sorelle, noi viviamo in un mondo dove
comanda il denaro. Noi viviamo in un mondo, in una cultura dove regna il
feticismo dei soldi.
Voi avete giustamente preso a cuore le situazioni in cui la famiglia delle
nazioni è chiamata ad intervenire, in spirito di fraterna solidarietà, con pro-
grammi di protezione, spesso sullo sfondo di eventi drammatici, che colpisco-
no quasi quotidianamente la vita di tante persone. Vi esprimo il mio apprez-
zamento e la mia riconoscenza, e vi incoraggio a proseguire sulla strada del
servizio ai fratelli più poveri ed emarginati. Ricordiamo le parole di Paolo VI:
« Per la Chiesa cattolica nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è
lontano ».1 Siamo infatti una sola famiglia umana che, nella molteplicità delle
sue differenze, cammina verso l'unità, valorizzando la solidarietà e il dialogo
tra i popoli.
La Chiesa è madre e la sua attenzione materna si manifesta con partico-
lare tenerezza e vicinanza verso chi è costretto a fuggire dal proprio Paese e
vive tra sradicamento e integrazione. Questa tensione distrugge le persone.
La compassione cristiana - questo « soffrire con », con-passione - si esprime
anzitutto nell'impegno di conoscere gli eventi che spingono a lasciare forza-
tamente la Patria e, dove è necessario, nel dar voce a chi non riesce a far
sentire il grido del dolore e dell'oppressione. In questo voi svolgete un com-
pito importante anche nel rendere sensibili le Comunità cristiane verso tanti
fratelli segnati da ferite che marcano la loro esistenza: violenza, soprusi,
lontananza dagli affetti familiari, eventi traumatici, fuga da casa, incertezza
sul futuro nel campo-profughi. Sono tutti elementi che disumanizzano e
devono spingere ogni cristiano e l'intera comunità ad una attenzione
concreta.
Oggi, però, cari amici, vorrei invitare tutti a cogliere negli occhi e nel
cuore dei rifugiati e delle persone forzatamente sradicate anche la luce della
speranza. Speranza che si esprime nelle aspettative per il futuro, nella voglia
di relazioni d'amicizia, nel desiderio di partecipare alla società che li accoglie,
anche mediante l'apprendimento della lingua, l'accesso al lavoro e l'istruzione
per i più piccoli. Ammiro il coraggio di chi spera di poter gradualmente
riprendere la vita normale, in attesa che la gioia e l'amore tornino a rallegrare
la sua esistenza. Tutti possiamo e dobbiamo alimentare questa speranza!
1 Omelia per la chiusura del Concilio Vaticano II, 8 dicembre 1965.